Il podere quando non era ancora il Podere (parte 2)

Parte 2

Bentrovati carissimi.

Il Podere oggi. Come potete vedere la passione per le tavole e le candele è rimasta intonsa.

Sono felice di ritrovarvi qui nello spazio dove racconto del mio legame col Podere. Per chi si fosse perso la puntata precedente può trovare gli albori del podere qui.

Ci siamo lasciati a ristrutturazione finita dopo mille peripezie. Ricordo ancora la prima volta che ci abbiamo dormito. Mi sembrava di essere in campeggio.

Brandine per terra, fornellino a gas preso in prestito da nonna Silvana, tanto non era periodo di conserva di pomodoro, e una gioia indescrivibile che solo una lunga attesa ti può dare.

Da quella prima notte la comodità arrivò piano piano anche al podere con la “p” minuscola. Arrivarono i letti, o meglio, babbo con bruschino alla mano e tanta cera, li ristrutturò, come pure varie credenze e comodini, tavoli e sedie, madie e chi più ne ha più ne metta. Tranquilli, le madie al plurale stanno lì solo per una scelta stilistica, ne abbiamo una sola in casa, come tutte le persone sensate.

Insomma dopo tanta fatica iniziò la parte piacevole.

Iniziammo a fare festa.

Io, poco più che quindicenne (ricordo ai nuovi arrivati che nella puntata numero 1 ho strappato una promessa ai lettori, vedi la promessa qui), ho fatto festa più di tutti.

C’erano le feste estemporanee, ma anche quelle ricorrenti. Per le feste ricorrenti, ovvero le “pizzate” e il mitico “River Trophy” vi invito a leggere qui.

Ma per la festa dei lumini rimanete pure su questa pagina. Dato che mentre leggete queste mi sintetiche righe (puahahahah al sintetico mi viene da sorridere poverivoicheancoranonsapetecosaviaspetta) non potete vedermi, vi dico che già al ricordo mi vengono gli occhi a cuore.

Ero già cresciutella, avevo si e no…23-24 anni (bei tempi) e il gruppone di amici era una risorsa più unica che rara. Come ben saprà chi mi conosce un pochino, sono sempre stata un po’ vecchietta dentro, appassionata già all’epoca al vintage, dalle colonne sonore agli oggetti. Tenevo come le cose sacre il vecchio giradischi di babbo, ovviamente con dischi annessi, e adoravo candele e lumini alla citronella.

La serra dell’appartamento Nepitella, vestita a festa in uno shooting di questi giorni, per testare la tavola del Natale.

Si, esatto quelle piaccelle giallo fosforescente nel coccino. Spero con questa mia confessione sui tempi che furono, non abbia rovinato l’atmosfera del racconto.

Beh, quella passione per candele e citronelle aveva anche un risvolto pratico. Il podere con la “p” minuscola non era certo come il Podere con la “p” maiuscola, il giardino era completamente buio (a parte un faro arrivato non ricordo come dall’Inghilterra che se ti accapavi un attimo fuori dall’uscio ti abbronzavi di più che con una seduta di lampada abbronzante dall’estetista, e se sfortunatamente una macchina si trovava a percorrere la strada sul colle alle nostre spalle, rischiava di uscire di strada da quanto era potente e ti rendeva cieco all’istante. Quindi per coscienza e senso civico non lo accendevamo mai).

Indi per cui, se non volevamo inciampare in un cinghiale, dovevamo accendere candele e citronelle.

Mi sto accorgendo che vi voglio parlare di un ricordo bello, romantico e poetico, ma che tra cinghiali e citronelle oggi vi sto castrando il romanticismo. Vabbè, oggi m’è presa così.

Il candelabro di vetro verde di Empoli, fatto da nonno Renzo quando lavorava in vetreria.

Quindi tornando a noi. Iniziò il filone delle cene dei lumini.

Immaginate un giardino buio che più buio non si può, centinaia di candele sparse sul prato, sui panchetti e sui tavoli. Un giradischi degli anni ’60. Gino Paoli, Mina, Milva, Gianni Morandi, Lucio Dalla, Toni Dallara e tutti i loro amici che cantavano per noi con la voce macchiata dalla polvere. Cibo a volontà sui tavoli, il fresco delle sere d’estate al Podere (quello non è cambiato di una virgola), le lucciole che danzavano tra i papaveri ed i girasoli nella vallata, un gruppo di ventenni che vivono i loro vent’anni con i loro drammi e le gioie immense tanto non poterle contenere in nessun corpo umano.

Quell’immensità di emozioni me la ricordo ancora. Anche i drammi, i dolori che ti strappavano la pancia erano belli.

Eravamo tutti belli con la nostra autenticità.

La tavola, il table setting, la convivialità, l’atmosfera unica delle candele. Ancora oggi la mia passione.

Ecco, sono spariti i cinghiali e il giallo fosforescente delle citronelle. Ora c’è spazio solo per quell’emozione ritrovata.

A presto bellocci.

Amore

L’amore che nutro per il Podere affonda le radici in tempi lontani.

Oggi ho voglia di raccontarvi perché mi sono innamorata di questo luogo.

Ero piccola quando andavo a fare il pic-nic sotto il sorbo con Chiara, la mia storica amica delle elementari. Eravamo diverse in tutto io e Chiara, e forse quello era il nostro segreto, eravamo complementari, le nostre vite continuano ancora oggi ad incrociarsi ed è sempre una gioia quando questi incontri possono avvenire. Il sorbo è un grosso albero al di là della strada, nel podere vero e proprio non potevamo stare perché Orfeo (andate a vedere chi era Orfeo cliccando qui) doveva lavorare, noi eravamo piccoline, non potevamo dare noia. Gli ingredienti principali di tutti i pic-nic con chiara erano la coperta, per stare sedute in terra (anche quando i pic-nic li facevamo in casa), ma soprattutto Fruttolo, un formaggino che sembrava uno yogurt, ma che sembrava anche una BigBabol, ma che sembrava anche Didò, io adoravo quello alla fragola, in realtà non so nemmeno se lo facessero anche in altri gusti, tanto io volevo solo quello alla fragola.

Ancora oggi i pic-nic sono molto graditi

Erano ancora gli stessi anni quando si facevano i pranzi per la vendemmia. La mattina tutti a tagliare i grappoli d’uva, poi nel lungo garage dove solitamente stava il trattore, la mamma di Orfeo (ah…non siete ancora andati a vedere chi fosse? Beh siete sempre in tempo cliccando qui) cucinava per tante e tante e tante persone, a me sembravano un’infinità, anche perché lei era piccola piccola e gracilina. Il pranzo era buono quasi come quelli che preparava nonna Silvana, quasi.

La natura, il panorama, il tramonto al Podere sono indescrivibili

Ero un pò più grande quando oramai quindicenne iniziammo a fare, ad ogni primavera, il “River Trophy” con gli amici. Da tamarroni anni 80 andavamo in bosco con le nostre peggiori scarpe, ma rigorosamente muniti di stereo con le cassette, la compilation la registravamo tutti tutti gli anni con gli ultimi successi, Francesco si sacrificava tutti gli anni per portare quel cassettone chiassoso, e scendevamo nel fresco del bosco, seguendo i viottoli che tracciava Orfeo ogni mattina come un bellissimo disegno (bravi…vedo che a questo punto siete già andati tutti a vedere chi fosse il mitico Orfeo, bravi!). Il percorso era sempre lo stesso: andavamo alla cascata, ammiravamo quell’acqua che arzilla scendeva giù e via a risalire il ruscello con le nostre scarpe peggiori, perché oramai veterani sapevamo che saremo finiti con i piedi e tutto il resto in mezzo all’acqua, pur stando attenti, ma in fondo era quello il bello. Poi si arrivava sotto la casa del pastore, sempre con lo stereo acceso portato da Francesco, che lui no, non poteva cadere in acqua. Uno dei momenti che preferivo era quando si arrivava al ponte mediceo, mi faceva un pò paura perché lo vedevo poco stabile, ma era tanto bello e poetico, ed in quel preciso punto io immaginavo di veder arrivare Cosimo de Medici seguito da Rinaldo degli Albizzi a cavallo. Poco più avanti la nostra meta, una chiesina sconsacrata e diroccata con una scalinata d’ingresso in pietra, bellissima, che nei miei sogni folli immaginavo di poter infilare nello zaino per sostituire la nostra, che non mi piaceva per niente. Scontato ed ovvio, il fine finale era la spaghettata che facevamo tutte le volte, alle 12,30 in punto nel giardino ancora spartano del Podere, e come era bella anche questa tavolata lunga lunga.

Le tavolate lunghe lunghe lunghe ci piacciono tanto ancora oggi. Ph di Sara Stefanini

Poi ci sono le pizzate con gli amici. Si, avevamo, abbiamo, un piccolissimo forno a legna che poteva cucinare ben…una pizza alla volta, in barba al vecchio forno costruito nell’abside, dove la mamma di Orfeo (che, dite la verità, oramai deve essere per forza diventato uno di famiglia) cuoceva ben 14 chili di pane. Ai tempi ancora non avevamo il nostro lievito madre, andavamo al forno dietro casa ad Empoli a prendere l’impasto per la pizza, che ahimè perdonatemi, stendevamo col mattarello. Comunque le dimensioni non contano, ed io sfornavo pizze e focacce (che dalle mie parti si chiamano schiacciate) anche per 30 persone, dico 30 amici giovani e affamati, e a fine serata si faceva la pizza maialona per finire tutti gli ingredienti. Ma erano proprio buone quelle pizze, sarà che all’epoca bastava stare con gli amici per essere felici, sarà stato il saporino che il legno di ulivo lasciava in cottura, sarà stato l’olio buono, che è lo stesso di ora in verità, sarà stato che prima gli esperti culinari non esistevano e bastavano le cose genuine fatte in casa, per sembrare di essere in paradiso, sarà tutto questo, ma quelle pizze, e quel caldo, me li ricordo ancora!

Oggi la pizza la facciamo col lievito madre. Ph di Sara Stefanini

Sentite, dato che non sono ancora a metà racconto, ma penso a questo punto di aver perso la metà di voi dal sonno, che ne dite se si continua un’altra volta? Che ho ancora da raccontarvi delle feste dei lumini, e di tutte quelle più recenti, anche di quelle dove il Podere, come lo potete vedere oggi, era già nato.

Dai, se ne parla un’altra volta. Vi saluto.

A presto

Silvia